Le storie dei liquidatori lettoni della centrale di Chernobyl. La memoria di un sacrificio

Il 26 aprile del 1986 a Chernobyl avvenne il più grande disastro nucleare della storia europea. Dalla Lettonia partirono oltre 6000 ”liquidatori” per limitare i danni della centrale. Un sesto di loro è morto per le conseguenze delle radiazioni. Questa è la storia del loro sacrificio.

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Era il 26 aprile del 1986 quando l’Europa visse una delle più drammatiche giornate della sua storia, a causa di un incidente ad una centrale nucleare, ma gli Stati e i cittadini europei, di qua e di là dalla cortina di ferro, non ne seppero niente fino al giorno dopo, quando i rilevatori di radioattività della centrale svedese di Forsmark registrarono dati anomali della radioattività. I venti che nella giornata del 26 aprile spiravano verso nord portarono la nube radioattiva sopra la Bielorussia, poi sopra i paesi baltici, Lituania, Lettonia ed Estonia, per poi virare a nord ovest ed investire Svezia e Finlandia, e successivamente il resto dell’Europa nord occidentale.

Il Cremlino cercò di smentire l’incidente della centrale di Chernobyl finché il disastro non fu evidente, ma nel frattempo nelle repubbliche sovietiche investite dalla nube radioattiva le persone avevano continuato a vivere normalmente, senza prendere le precauzioni che sarebbero state necessarie.

La Lettonia pagò un terribile tributo per l’incidente di Chernobyl anche per il numero dei suoi cittadini che furono inviati alla centrale ucraina per contribuire a spegnere l’incendio e a rimuovere i detriti radioattivi. Furono circa 7000 gli uomini, quasi tutti militari, che dalla Lettonia vennero reclutati, solo formalmente in modo volontario, in realtà costretti a recarsi a spegnere l’inferno radioattivo di Chernobyl e a scaricarci sopra una tomba di cemento.

Di quegli oltre 6000 liquidatori, un sesto sono morti per le conseguenze delle radiazioni. I superstiti hanno creato anche un’associazione “Chernobyl”, per non dimenticare il sacrificio dei loro compagni e della Lettonia in quel disastroso evento. Queste sono alcune delle loro storie, raccolte alcuni anni fa da LTV, Tvnet e Latvijas Avīze.

Arnolds Vērzemnieks
Arnolds Vērzemnieks è rimasto sul luogo dell’incidente dal novembre 1986 fino all’inizio dell’anno successivo. Subito dopo il suo ritorno ha cominciato ad accusare problemi di salute. Tornando a casa dalla stazione centrale di Riga, ha perso conoscenza. “Non voglio ricordarlo”, dice a se stesso quest’uomo che da allora ha perdite di memoria ogni giorno da 25 anni.
“Riesco appena ad accorgermi quando arriva. Comincio a vedere male…” Anche se ognuno dei liquidatori reduci da Chernobyl subisce conseguenze diverse dall’esposizione alle radiazioni, uno dei sintomi più frequenti è la perdita di memoria, dimenticarsi il numero di telefono, l’indirizzo di casa.
Nel 1986 Vērzemnieks era un ufficiale del corpo della protezione civile a Riga, settore radiazioni e chimica. “La cosa più semplice era chiamare l’esercito. Era una chiamata di servizio, dovevi rispondere. Se non lo facevi, eri responsabile di un crimine” ricorda lui. “A quel tempo il luogo in cui si trovava una centrale nucleare era tenuto segreto, prima di partire dovemmo cercare sulla mappa un luogo chiamato Chernobyl.”
Quando arrivò nei dintorni della città di Pripyat, i lavori erano già in pieno svolgimento. Sopra il reattore era stato costruito un enorme sarcofago di cemento. Senza di quello il materiale radioattivo trasportato con la pioggia e la neve avrebbe coperto tutta l’Europa. “Il lavoro più sporco venne affidato all’esercito, decontaminare tutto il terreno della città di Pripyat.
Di sera Pripyat faceva paura. Di fronte a te c’era una città vuota, disabitata. Da qualche finestra sembrava di vedere dei fantasmi, e poi giravano per le strade animali da cui era bene tenersi lontani.”
A coloro che lavoravano alla copertura del tetto del reattore (da cui uscivano radiazioni letali) veniva promesso di lavorare solo un giorno e poi gli concedevano di tornare a casa.
“Allora molti pensavano di essere al sicuro – corro là sopra, faccio quello che mi chiedono e dopo un giorno torno a casa. Era un trucco psicologico per ingannarli” ricorda il presidente dell’associazione.
Per le radiazioni ricevute dal tetto della centrale sono morti 1560 uomini. “Tutti quelli dei nostri che sono andati là sopra sono morti”.

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Arnolds Vērzemnieks, il primo a sinistra, davanti al luna park abbandonato di Pripyat

Ojārs Lūsis, prima chiamata (8 maggio – 24 agosto)
“In Ucraina giunsi con la prima mandata. All’epoca lavoravo nel Palazzo della stampa, arrivò un avviso. Il capo reparto venne in laboratorio e ci disse: sarà dura, ma bisogna andare. Nessuno allora sapeva perché ci mandavano là e a fare cosa. Nell’esercito la mia specializzazione era di chimico esploratore, ma ormai ero molto lontano da quell’occupazione. Ci riunirono secondo le modalità della politica militare russa, nei primi tre mesi il 90% di quelli mandati là erano baltici. In seguito, quando iniziarono i cambi, arrivarono anche altri, ad esempio ogni sorta di criminali, che chiedevano loro stessi di venire, perché poi sarebbero stati liberi. Ci davano il cambio quando avevamo in corpo 25 rentgen, anche se all’inizio pensavano potessimo arrivare a 50 rentgen. Meno male che poi ebbero una qualche compassione. Quanta radiazione prendemmo alla fine, nessuno lo sa. Ci misuravano in gruppo, 80 persone e finiva lì. Ci si lavava e poi si usciva dalla zona. La cittadella di tende distava 30 km. Adesso siamo tutti invalidi, di 2° o 3° classe. Lo stato ci ha il sostegno minimo, ma se l’assegno d’invalidità supera la pensione, non ce lo pagano neanche. Ci sono persone che sono ricorse in processo, e hanno anche vinto. Ci avrebbero dovuto dare lo status di deportati – ci hanno spedito in quegli stessi carri bestiame…”

Ivars Kalada, prima chiamata (8 maggio – 3 ottobre)
Ivars Kalada fu tra i primi mille uomini accorsi nella zona del disastro. Il 7 maggio 1986, quasi una settimana dopo l’incidente, stava lavorando nel campo del kolkhoz senza rendersi conto di nulla. Era tempo di semina.
“Arrivarono al campo. Fecero: tu, tu e tu. Dovete andare al commissariato militare. Siamo andati al consiglio del villaggio, da lì siamo stati portati a Bauska, dove già aspettavano gli autobus. Nessuno ci ha detto niente. La sera verso le 23 siamo partiti per Riga, per Jaunciems. Anche lì non ci hanno detto nulla. C’erano molte persone e attrezzature. E poi il secondo giorno, quando abbiamo iniziato a mettere l’attrezzatura sui treni, alla stazione di Zemitani, finalmente ci hanno detto: Chernobyl, Chernobyl, Chernobyl… Ma nessuno sapeva niente di più specifico. Un generale lesse un ordine sulla piattaforma dei treni”.

“Credo che la nostra chiamata sia avvenuta secondo la politica del terrore sovietico, solo per colpire i baltici – come nel 1949, quando ci misero sui carri bestiame e ci spedirono in Siberia. Del pericolo venni a sapere solo quando fummo in Ucraina, perché nel primo punto di arrivo non potevamo costruire l’accampamento – c’erano troppe radiazioni. All’inizio ci avevano chiamato per un turno di 45 giorni, poi lo aumentarono a 180. Ero un vice comandante per le questioni tecniche – facevo l’autista ed ero di servizio insieme a medici e infermieri. Oggi sono un invalido di 2° classe – a volte mi sento molto male, soffro di gravi problemi di salute. Sono uno di quelli che ha fatto causa allo stato per non aver ricevuto la pensione. Le medicine sono care, lo stato rimborsa solo quelle meno costose. Noi che abbiamo fatto causa almeno possiamo permetterci le spese per la riabilitazione.”

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“C’era chi non ce la faceva. C’era un tenente che si impiccò dopo quattro giorni. Si è spezzato, anche fisicamente. Le persone non duravano. Non potevano sopportare neanche emotivamente. Il più folle è stato il primo mese, quando facevano in modo che non si formassero le precipitazioni. Sparavano missili in aria che disperdevano le nuvole di pioggia. In modo che l’inquinamento radioattivo non penetrasse nelle acque sotterranee con l’acqua piovana e non sfociasse nel Dnepr. Faceva terribilmente caldo. A fine maggio c’erano circa 33-34 gradi. Era un giugno caldissimo! Nemmeno una goccia di pioggia. Polvere. Naturalmente anche il cibo era fatto da prodotti concentrati. Più tardi hanno cominciato a portare anche qualcosa di fresco.”

Longins Švirēvičs, prima chiamata (8 maggio – 23 luglio)
“In Ucraina sono stato 77 giorni. Dovevo occuparmi delle macchine e del loro lavaggio. Non vedevamo né sentivamo le radiazioni – non avevamo idea del pericolo. C’era solo un sapore di metallo, di rame, nell’aria, e questo dicono sia tipico delle radiazioni. Avevo sentito alla radio “Voice of America” di quanto era accaduto, per questo ero pronto. Adesso ho un sacco di problemi con la salute – le articolazione, la pressione del sangue, le difese immunitarie. A volte le dita dei piedi e delle mani si lacerano, dal niente, e ci mettono molto tempo a rimarginare, anche mesi. Un sostegno dallo stato ce l’ho – una sorta di compensazione di 100 euro per le spese delle utenze. Ma soldi per i problemi di salute, o per una pensione, no! Per questo molti fanno causa allo stato.”

Jānis Stikans, prima chiamata (8 maggio – 28 agosto)
“Ho la sensazione che tutto quello che è successo nel primo mese, mi sia rimasto profondamente impresso nella memoria. Ci hanno fatto “prigionieri” il 7 maggio, l’11 maggio avevamo già tirato su una’accampamento di tende, e il 13 maggio siamo entrati nella zona. Nessuno poteva accorgersi, solo entrandoci, che ci fossero radiazioni. Vicino a una fossa fecero una misurazione, c’erano 2,5 rentgen. Ci siamo lavati, cambiato i vestiti, e venti minuti dopo avevamo addosso lo stesso livello di radiazioni. Col palmo della mano ho lisciato i vestiti, e mi è rimasto sul palmo un colore perlaceo. Adesso ho un’invalidità di 2° classe, ogni giorno è peggio – mi fanno male le ossa, le articolazioni. Per il sostegno dello stato, è difficile dire – mi pagano un rimborso per le medicine, ma per il resto dobbiamo fare da soli. Anch’io ho fatto causa – quattro anni è andata avanti, ma almeno ho ottenuto i soldi per 16 mesi.”

Il ricordo dei liquidatori rimasti ancora oggi
I liquidatori delle conseguenze del disastro nucleare si riuniscono ogni anno a primavera nel cortile dell’ospedale Stradiņš per un momento di ricordo comune. Ricordando la tragedia in cui molti sacrificarono la cosa più preziosa, la vita e la salute.
Džineta Heinrihsone, membro del consiglio dell’ospedale, ha tracciato un parallelo con la guerra in Ucraina, esortando a non permettere mai che una tragedia simile si ripeta: “Al momento la preoccupazione principale è l’invasione russa dell’Ucraina e la sicurezza della stazione di Zaporizhia, che potrebbe ripetersi con una tragedia simile”.

Fonti LTV, Tvnet e Latvijas Avīze