L’emancipazione della donna nella Lettonia dei primi del ‘900

La Lettonia nei primi anni della sua indipendenza era già un paese all’avanguardia per i diritti delle donne: il suffragio universale e la legge sul divorzio fin dagli anni ’20. E poi grandi personalità, da Aspazija a Emīlija Benjamiņa.

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Quando si pensa alla Lettonia e alla società lettone, viene naturale coniugare questo pensiero al femminile. Moltissimi aspetti della società, della cultura, della storia, della spiritualità, e persino dell’antica civiltà contadina lettone sono infatti coniugati al femminile.

L’elemento femminile nella cultura e nella società lettone.

L’elemento femminile ha avuto sempre un ruolo preponderante nella vita e nella storia lettone. Dalle figure della mitologia pagana lettone, come Laima, Māra, le Dabas mātes (le madri della natura, del bosco, della terra, del vento, degli spiriti), fino alle grandi personalità femminili della cultura e della politica a cavallo fra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, come la grande poetessa e fra le principali esponenti del femminismo europeo Aspazija, la scrittrice Anna Brigadere, fino ad arrivare a Emīlija Benjamiņa, editrice, imprenditrice, considerata la ”regina della stampa”, probabilmente la persona più ricca della Lettonia nel periodo precedente alla II guerra mondiale.

Femminili in massima parte erano le voci che nelle campagne lettoni dei secoli passati si tramandavano oralmente le dainas, le canzoni della tradizione popolare lettone, che sono diventate il nucleo della cultura e della lingua lettone. E furono le saimnieces, le donne che si occupavano dell’economia domestica e familiare delle fattorie nelle campagne lettoni, a forgiare il carattere e i lineamenti della società lettone che si è poi affermata e sviluppata all’inizio del novecento con l’indipendenza del paese.

L’indipendenza della Lettonia e le prime conquiste dei diritti delle donne.

La conquista dell’indipendenza dello stato lettone e l’introduzione dei primi diritti delle donne hanno proceduto di pari passo. Nel 1918 la Lettonia diventa una repubblica indipendente e nel 1920 le donne lettoni si recano alle urne per votare i nuovi rappresentanti dell’assemblea costituente, che avrebbe redatto la costituzione della nascente Lettonia. Le donne non solo votarono per eleggere i deputati dell’assemblea costituente, ma fra i 152 deputati eletti ci fu anche un seppur piccola rappresentanza femminile: Zelma Cēsniece-Freidenfelde, di professione medico, Klāra Kalniņa, dentista e attivista politica, Apolonija Laurinoviča, attivista politica nel Latgale, Elza Pliekšāne (Aspazija), la più grande poetessa lettone e principale esponente del movimento femminista, Valērija Seile, grande ricercatrice, la prima donna nel Latgale a raggiungere una istruzione accademica, e Berta Vesmane.

La società lettone che usciva dai drammatici anni della I guerra mondiale e della lotta per l’indipendenza aveva pagato un altissimo prezzo in vite umane. Molti dei suoi figli e padri avevano perso la vita nei fronti di guerra in Russia e nell’Europa centro orientale e nelle campagne e nelle strade della loro patria, per guadagnare la libertà e l’indipendenza. Le donne sopportarono a loro volta il grande peso della lotta per la sopravvivenza dell’economia e della società lettone, e uscirono anche loro da quella prova immane con una nuova consapevolezza del loro ruolo nella futura Lettonia indipendente.

Nella Lettonia dell’immediato dopoguerra i costumi si erano fatti più liberi, specie nella sua capitale Riga. Le donne che avevano sostenuto il peso della continuità della società lettone rompevano l’isolamento dal mondo maschile, intraprendevano nuovi mestieri, diventavano dottoresse, avvocati, giudici, imprenditrici, persino piloti, acquisendo spesso una propria indipendenza economica. Cominciavano a tagliarsi i capelli più corti, a curare maggiormente il loro aspetto, a truccarsi e a vestirsi con sempre maggiore eleganza, a volte addirittura in modo simile agli uomini nelle serate di gala, con smoking e cravatta. Anche i rapporti di coppia e l’amore diventavano più liberi e paritari.

Emīlija Jurevica sulla rivista “Nākotnes Sieviete” (La donna del futuro) nel 1925 invita ”le giovani donne a considerare bugiardo ogni uomo, che vi giura amore, ma non vi offre niente di più che dolci promesse”. D’altro canto la concorrenza nella ricerca di un marito a quei tempi era molto forte: in Lettonia all’inizio degli anni ’20 ogni 1000 uomini si contavano 1145 donne. In questa nuova età moderna, in cui gli uomini scarseggiavano, le donne spesso si comportavano con maggiore ”spudoratezza”, e non mancavano soprattutto a Riga, vere e propri agenzie matrimoniali.

La donna lettone moderna

Negli anni venti in Lettonia i giornali cominciano a parlare della “donna moderna”, anche se non sempre in un’accezione positiva. Per “donna moderna” si intendeva definire la donna emancipata di città, in contrapposizione alla donna che si occupa dell’economia domestica e familiare nelle campagne e che sviluppa nuovi interessi e nuovi legami nella società contemporanea.
A volte quando si usava l’espressione “donna moderna”, non necessariamente ci si riferiva ad un complimento, perché nella società lettone di quel tempo la maggior parte delle famiglie (almeno il 60%) viveva e lavorava in campagna. Era una società ancora essenzialmente contadina, e la figura della “donna moderna” era spesso associata all’idea del decadimento dei tempi, alla perdita della virtù femminile.

La donna moderna, secondo la descrizione che ne fa il giornale “Modernā Sieviete” nel 1931 è la donna che ha due figli, un bambino e una bambina. Entrambi piccoli. Il marito lavora in banca, ma anche lei fa un lavoro simile, si occupa di contabilità in un’azienda”.
La descrizione prosegue, sottolineando il fatto che anche la donna adesso, come fino ad allora l’uomo, nel proprio ambito lavorativo fa nuove conoscenze, colleghi uomini magari più anziani, affermati. Nascono un maggior numero di relazioni extra coniugali e per questo nella società lettone comincia a farsi strada l’idea di una legge che regoli le separazioni fra moglie e marito.

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Elza Pliekšāne (Aspazija)

D’altra parte la Lettonia si era già distinta all’inizio degli anni ’20 proprio per una legislazione all’avanguardia in alcuni aspetti dell’emancipazione femminile, a partire dal diritto di voto universale.
Uno dei primi grandi scontri nell’assemblea costituente lettone fu proprio quello sulla legge sul matrimonio. Due grandi personalità dell’epoca si fronteggiavano: Aspazija da una parte e il prete cattolico e principale esponente politico del Latgale, Francis Trasuns. L’assemblea costituente alla fine si pronunciò per una modifica della legge sul matrimonio, che prevedeva l’introduzione del matrimonio civile.
“Un grande passo nel cammino del progresso, un salto sopra i vecchi tempi”, fu il commento di Aspazija dalle tribune dell’assemblea costituente.
“Questa legge serve a coloro che non credono in Dio, non vanno in chiesa e vogliono crescere i propri figli non secondo lo spirito cristiano, ma secondo la propria etica“, ribatté Trasuns.

Ma i progressi sul matrimonio civile, non eliminavano altri problemi interni alla vita familiare. Su “Latvijas Vēstnesis” del 21 dicembre 1920 la poetessa e femminista Tusnelda Šterna denunciava i casi sempre più numerosi di violenze domestiche e l’arretratezza del sistema legislativo, che imponeva alle donne legami definiti di sangue e arcaici.

Riga la capitale dei divorzi.

La nuova legge sul matrimonio votata dall’assemblea costituente della nuova repubblica di Lettonia, prevedeva anche agevolazioni per le separazioni e introduceva grandi novità nei rapporti fra moglie e marito. Secondo la nuova legge bastava dimostrare di non convivere più con il coniuge da tre anni per potersi separare legalmente.

La legislazione all’avanguardia in tema di separazione fece ben presto della Lettonia una sorta di mecca per chi voleva divorziare. Cominciarono a giungere a Riga molte coppie anche dall’estero, dato che in molti paesi europei le leggi sul matrimonio erano molto più restrittive.

Nel 1938 ad esempio fece scandalo la causa di divorzio del conte italiano Emanuele di Castelbarco che venne a Riga per utilizzare la legislazione lettone, che gli permettesse di separarsi legalmente dalla prima moglie per poi sposare la figlia di Arturo Toscanini, Wally. Il grande direttore d’orchestra infatti non approvava affatto il legame fra la figlia ed un uomo sposato, così il conte cercò nella legislazione lettone la scappatoia legale per ottenere l’approvazione di Toscanini alla relazione con la figlia.
La prima moglie però riuscì a dimostrare che non erano passati tre anni dalla fine della convivenza con il conte e il processo si protrasse a lungo.

La legge sul divorzio veniva spesso utilizzata anche dai mariti. Nel 1921 il giornale “Amerikas Atbalss” scriveva che la maggior parte delle cause di divorzio provenivano dai mariti. Durante gli anni della guerra infatti, capitava a volte che con i mariti al fronte le mogli si impegnassero in nuove relazioni.
Le separazioni diventarono un fenomeno piuttosto frequente nella società lettone di quegli anni e solo con l’avvento del regime autoritario introdotto dal colpo di stato di Kārlis Ulmanis le cose cambiarono e il numero dei divorzi cominciò a diminuire.

Il regime autoritario e la politica demografica.

Il colpo di stato di Ulmanis del 1934 trasformò anche la Lettonia in un regime autoritario, come stava succedendo in diversi altri paesi europei in quell’epoca: il parlamento venne esautorato, tutti i partiti politici furono dichiarati illegali. Anche il movimento femminista e le organizzazioni di sinistra subirono forti condizionamenti.

Come molti altri regimi autoritari di quel tempo, la Lettonia di Ulmanis pose al centro delle sue politiche la questione demografica e la natalità.
Gli uomini scapoli e le donne nubili erano considerati un peso per la società lettone: il compito di ogni buon cittadino era quello di sposarsi e mettere su famiglia, possibilmente con una prole numerosa. Servivano braccia per i campi, in un’economia come quella lettone che basava gran parte delle sue esportazioni sui prodotti dell’agricoltura e sugli allevamenti, ma servivano anche braccia nelle città, dove le industrie lettoni cominciavano a fiorire e a svilupparsi. Il quotidiano “Rīts” scrive nel 1935 che ogni cinque uomini lettoni, uno rimane scapolo. Per il regime di Ulmanis è una statistica da avversare.

Il compito della donna dunque torna ad essere più quello di moglie e madre che di persona realizzata nel suo lavoro. Di conseguenza anche la pratica del divorzio viene considerata poco patriottica e non auspicabile per gli interessi della nazione.
In realtà però la società lettone non risponde con entusiasmo alle nuove politiche della famiglia del regime. La libertà sessuale e di relazione instaurata negli anni venti non può essere semplicemente soffocata dai diktat del regime, e neanche da un sistema fiscale che penalizza i single e le famiglie senza figli.

Del resto veniva facile nella società lettone ironizzare sullo stesso “vadonis“, il duce Ulmanis, che paradossalmente era l’esempio più illustre di scapolo lettone. Ulmanis infatti, nonostante fosse l’alfiere di un regime che si preoccupava di incentivare la natalità e la famiglia, non volle mai sposarsi. Era solito dire che lui si considerava sposato con la Lettonia, e che tutti i cittadini lettoni erano i componenti della sua famiglia.

Solo nel 1939 il numero dei divorzi tornò a salire, ma questo era il segnale dell’arrivo della tempesta. I venti di guerra spingevano fuori dal paese molti vācbaltieši, i tedeschi del baltico, che fuggivano dalla Lettonia all’avvicinarsi della prima invasione russa del paese baltico. I tanti cittadini di origine tedesca che risiedevano in Lettonia si trovavano costretti a lasciare il paese e per diversi di loro divenne necessario rompere i legami matrimoniali assunti in Lettonia, per farsi una nuova vita in Germania.

Fonti: Nākotnes Sieviete, Latvijas Vēstnesis, Rīts, Modernā Sieviete, Amerikas Atbalss, Periodika.lv, Latvijas Avīze.